La Calabria che riparte
di Panorama.it:
“Non è più lo spigolo maledetto d’Italia ma il cantuccio
benedetto dagli stranieri”.
La
Calabria non si piega ma impiega, denuncia ed espelle, protesta e non tace. E
dunque non era solo di parata l’abbraccio che il popolo calabrese ha restituito
al presidente Sergio Mattarella quando nello stadio di Locri, in
occasione della Giornata e dell’impegno contro le mafie, il nome del fratello
Piersanti è stato accompagnato da una sinfonia di battimani. È vero che si
celebrava la memoria ma era soprattutto la novità che, insieme a Mattarella, si
salutava.
La
Calabria è infatti tornata a essere oggetto di studio non tanto per le minacce
ignobili degli ‘ndranghetisti, ma per le suppliche che a Reggio Calabria, il
presidente del tribunale dei minori, Roberto Di Bella, dice di continuare
a ricevere: «Le mogli dei boss mi chiedono di allontanarli dai figli. Solo così
possono assicurargli un altro destino».
Gli
americani sono stati i primi ad accorgersene. I giornali statunitensi, dopo
molto tempo, hanno rispedito in Calabria gli inviati per esplorare le
eccellenze anziché i covi, hanno iniziato a raccontare i sindaci coraggio
invece dei sindaci briganti. I cronisti sono stati presi per la gola, soffocati
sì, ma dai sapori; coccolati dagli chef e non più istruiti soltanto dai
magistrati.
È
stata per questa ragione che il New York Times, a gennaio di quest’anno,
ha scelto proprio la Calabria tra le 52 mete imperdibili del 2017 inserendola
nella lista compilata dalla giornalista Danielle Pergament, una sorta di
baedeker che non segnala luoghi dalle grandi speranze ma seleziona spazi di
documentato valore.
Di
sicuro è la gastronomia che sta facendo la fortuna di questa Italia
dimenticata, che sta demolendo lo stereotipo dell’Aspromonte selvaggio e
improduttivo.
«Oggi
– dice lo chef Filippo Cogliandro - non c’è più solo il bergamotto,
che è il nostro agrume-passaporto nel mondo, ma ci sono i presìdi slow food che
si moltiplicano, i nostri vini che non ubriacano ma che ci fanno ubriacare di
lodi».
E
poi ci sono appunto gli chef… «La cucina calabrese è una factory, un movimento
d’avanguardia. Come sempre avviene, le arti anticipano e precedono
l’eccitazione economica» spiega sempre Cogliandro che a Reggio Calabria è
proprietario del ristorante “L’A Gourmet L’Accademia”, ma che è soprattutto un
formidabile irregolare della cucina, un autodidatta di talento. «Volevo fare il
prete. Poi ho scoperto di saper cucinare». Quando? «Ormai sono passati
vent’anni. Il mio primo ristorante lo aprii a Lazzaro, 20 km da Reggio. È vero
che la ‘ndrangheta ne incendiò una parte, ma è anche vero che senza
quell’infamia, forse, sarei rimasto un cuoco mediocre. La loro sfida mi ha
stimolato come chef prima ancora che come imprenditore».
Cogliandro
ha compreso che la Calabria stesse mutando quando hanno smesso di chiamarlo per
raccontare la sua lotta al racket («che continua con le cene che io chiamo
della legalità») e intervistarlo per il suo carpaccio di spada. «Avevo iniziato
a rifiutare gli inviti in televisione. La ‘ndrangheta deve essere estirpata ma
non può essere manipolata per dannare un territorio e descriverlo come un
inferno in terra».
“L’Accademia”
nel 2015 si è così spostata da Lazzaro a Reggio Calabria ed è diventata un
riferimento gastronomico e un esempio di riscossa civica. Giuseppe Pignatone,
che oggi è procuratore capo di Roma, l’ha adottata e suggerita a Roberto
Scarpinato, procuratore generale di Palermo, mentre Federico Cafiero de Raho,
che a Reggio Calabria ha sostituito Pignatone in procura, ha raccolto
idealmente il testimone di questa singolare staffetta.
Proprio
come in atletica, in questi anni, anche i cuochi calabresi sono riusciti a
correre. «A “L’Accademia” – si fregia Cogliandro - sono venuti a cucinare sia Luca
Abruzzino che Caterina Ceraudo».
Si
tratta non di chef ma di moschettieri che hanno strappato premi e menzioni
speciali, mutato il rapporto fra centro e periferia. La Ceraudo, proprio lo
scorso 21 marzo, è stata indicata dalla Guida Michelin, chef donna dell’anno e
si è aggiudicata anche il prestigioso premio Veuve Clicquot, una
sorta di legion d’onore ma tutta al femminile. . Non è solo un fenomeno della
cucina italiana ma anche la più giovane tra gli stellati, 29 anni. Per la prima
volta, e soprattutto al Sud, sono i cuochi a rifare la geografia e non è la
geografia a condizionare le scelte dei cuochi. Il ristorante “Dattilo” della
Ceraudo si trova ad esempio a Strongoli, un paese di seimila abitanti in
provincia di Crotone; il “Ruris” di Natale Pallone a Isola di Capo
Rizzuto; “L’Alta Cucina” della famiglia Abruzzino alla periferia di Catanzaro.
«E a Marina di Gioiosa brillano le stelle di Riccardo Sculli» aggiunge
Cogliandro nella sua cucina dove è possibile ascoltare tante lingue e che forse
per questo è così fantasiosa.
A
“L’Accademia” sono ormai colonne, e non solo per l’altezza, i cuochi Abdou e
Saliu. «Uno è scappato dal Senegal e l’altro dal Gambia». Cogliandro è riuscito
prima a ottenere l’affidamento, e quindi a fargli da padre, poi ad assumerli, e
dunque a ricoprire i ruoli di datore di lavoro e maestro.
Come
Cogliandro, l’intera Reggio Calabria in questi anni ha accolto con generosità
(12 mila migranti sono sbarcati nel solo 2016; più di Lampedusa). Il comune sta
entrando in possesso di numerosi beni confiscati alle mafie che sta provvedendo
a riconvertire in ricoveri. Il 23 gennaio un palazzo del clan Audino è stato
sgomberato e aperto ai senzatetto. Adesso si chiama “Stella Cometa”. Nel giorno
dell’epifania, il sindaco, Giuseppe Falcomatà, ha spalancato anche
l’androne di Palazzo San Giorgio, sede del comune. Quella sera hanno dormito in
60. Falcomatà ha intensificato la raccolta differenziata («siamo passati dal 12
al 40 per cento»), ha inaugurato tre asili pubblici: «Abbiamo cominciato a
pensare alla nuova leva. Asili quindi ma anche nuove palestre che sono isole di
gioventù salvata».
E
forse non è un caso che sia calabrese Fabio Mollo, 36 anni, il regista che
con il suo film Il Padre d’Italia riempie le sale d’essai dove ancora
il buon cinema è protetto. L’opera di Mollo, uscita nelle sale il 9 marzo, con
Isabella Ragonese e Luca Marinelli, è la migliore gravidanza cinematografica di
questi mesi perché sterile di retorica ma feconda di suggestioni. Secondo Mollo
la Calabria oggi è senza dubbio la terra più fertile per chi fa cinema: «
Inesplorata e impervia ma proprio per questo vergine. Alice Rorwacher ha
girato qui il suo Corpo Celeste, così come Michelangelo Frammartino che
ha ambientato in Calabria il suo Le quattro volte. Entrambi sono stati
presentati al festival di Cannes».
Mollo
che dalla Calabria è andato via ma che torna spesso, «mia madre è rimasta qui»,
ogni anno tiene a Reggio Calabria un laboratorio per giovani registi, il
Filmaking Lab, che produce un cortometraggio: «E già siamo alla terza edizione.
L’anno scorso abbiamo vinto il nastro d’argento a Venezia. L’idea è quella di
farne un festival stabile». La Calabria come la Nouvelle Vague? «Non viene
raccontato, ma la Calabria ha una generazione di ventenni che è rimasta e non è
scappata. È quella che manifesta a Locri contro le mafie, ma anche quella che
riempie le vie di Reggio in occasione dei Gay Pride. La verità è che la
Calabria ha sempre avuto una robusta corda civile. La povertà, anche di mezzi,
ha reso impossibile raccontarla come merita. Eppure ci sta provando».
La
Calabria sta provando pure a liberarsi del complesso dell’isolazionismo,
dell’inacessibilità come destino. «Ed è proprio per questo motivo – dice
Falcomatà - che non possiamo permettere che l’aeroporto di Reggio chiuda.
L’Alitalia ha cancellato i voli. Ma senza quello scalo siamo condannati
nuovamente al sottosviluppo» ragiona il sindaco che è pronto a consegnare al
governo le chiavi della città. E però, le asperità territoriali non hanno
scoraggiato i giapponesi della Hitachi che nel 2015 hanno rilevato l’ex
officine Omeca dalla Ansaldo, un patrimonio di meccanica di precisione che
occupa 500 dipendenti. A Reggio Calabria sono state così realizzate (e da poco
consegnate) 17 carrozze della metropolitana di Taipei: «Ma l’impianto di Reggio
– spiega Giuseppe Marino, direttore operativo di Hitachi - è attualmente
impegnato in cinque commesse. Sono treni per le metropolitane di Honolulu,
Lima, Copenaghen, Taipei appunto, oltre quelli “Vivalto” destinate al trasporto
regionale di Trenitalia».
In
realtà, in Calabria, esiste da tempo un’eccellenza tecnica silenziosa ma anche
cosmopolita.
A
Gioia Tauro, matematici e ingegneri si misurano con le catastrofi e le sfidano.
La DemTech studia e costruisce soluzioni per la mitigazione dei rischi da
sismi, sperimenta contrasti che minimizzano le lesioni in campo edilizio. Dai
laboratori della DemTech è cosi nata “Safety Cell”, un guscio protettivo, una
gabbia che permette, in caso di sismi, di proteggere alcuni spazi degli
edifici. L’azienda è di Antonino De Masi che non è solo un pioniere
dell’imprenditoria ma un chiaro esempio di perseveranza e di schiena dritta.
«Ho lottato contro il mondo intero. Dal 1990 ricevo minacce dalla ‘ndrangheta.
L’ultimo avvertimento mi è arrivato il 12 luglio scorso. Per proteggere i miei
figli ho dovuto mandarli via. In Calabria sono rimasto io in compagnia della
scorta. Per vederli ogni fine settimana faccio il pendolare». De Masi detesta
il piagnonismo, pennacchi e cerimonie, è concreto come gli uomini dalle mani
dure: «Sono e rimango un metalmeccanico». Come su padre. Le aziende De Masi sono
riuscite, partendo dalla Calabria, a dominare il mercato delle macchine
agricole in Israele, Spagna, Portogallo. La DemTech dà oggi lavoro a 150
dipendenti, non è fuggita da Gioia Tauro ma ci è rimasta «perché la partita me
la voglio giocare qui e non altrove».
De
Masi dice che l’idea della cellula di protezione gli è venuta tornando da uno
dei suoi viaggi in Iran: «C’era stato lo scoppio della centrale nucleare a
Fukushima. È stata la molla per inventare la Safety Cell». La “gabbia” ha
ricevuto la certificazione del Politecnico di Torino, anche se la migliore,
dice De Masi, è arrivata per lettera: «Un uomo di Teramo, che l’ha acquistata,
mi ha scritto che grazie a questa cellula riesce a dormire sereno». De Masi
diffida dalle pacche sulle spalle, buoni propositi ma gesti inconcludenti:
«Quando ho presentato il progetto tutti mi dicevano che fosse una genialata. Ma
io sono un imprenditore. Ho bisogno di fare conoscere e vendere il prodotto non
di sorrisi e apprezzamenti». De Masi per pubblicizzarlo ha investito anche il
denaro che non ha, «e non sono un giocatore d’azzardo». La DemTech ha cosi
intrapreso una campagna pubblicitaria sui quotidiani del Centro Italia che ha
scontentato i pubblicitari: «Mi chiedevano di utilizzare frasi shock. Ma io non
posso promettere la salvezza dal terremoto, ma solo di mitigare i rischi. Non
sono un avvoltoio e non promettoi miracoli. Non mi fido dei facili entusiasmi».
La
cellula inventata da De Masi ha un mercato, «le indagini hanno testimoniato che
interesserebbe a 675 mila famiglie», e potrebbe creare occupazione per 300
calabresi «perché è ovvio che da Gioia Tauro, io non mi muovo». De Masi è
insomma solido come i metalli, un po’ come quei “Bronzi” che alla fine Reggio
Calabria è stata capace, finalmente, di risvegliare. I Bronzi di Riace dopo
anni di degenza e restauri sono oggi esibiti al Museo archeologico Nazionale:
erano stati recuperati dal fondo del mare ma riposavano in fondo al museo. Il
nuovo direttore Carmelo Malacrino li ha resi accattivanti e i numeri
gli hanno sorriso: +28 per cento i visitatori nell’ultimo anno. Come questi
“Bronzi” che prima erano distesi e oggi sono in piedi, la regione insomma si
scuote e si stropiccia gli occhi. Di certo si fa comprendere e non è più
«quella cosa vaga» che descriveva lo scrittore (calabrese) Corrado Alvaro. «La
Calabria è stata considerata non una terra ma quasi un frutto proibito, la mela
del diavolo» conclude Cogliandro che di cibo se ne intende. Il peccato? «Oggi è
non mangiarla».
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