Tutti a tavola dell'accoglienza
di Enzo Bianchi - Gli anni del secondo dopoguerra, una famiglia povera e
precaria del Monferrato: queste le mie origini. Mio padre stagnava pentole e
macchine da verderame, con poco guadagno. Per tirare avanti faceva anche il
barbiere, sebbene pochi potessero pagarsi il lusso di farsi radere. Mia madre
era gravemente malata al cuore, sapeva che se ne sarebbe andata presto e poteva
fare poco, tra una crisi asmatica e l’altra. Morì quando avevo otto anni…!
La vita era grama, eppure in quel clima su cui incombevano
la povertà e la morte ricordo la tavola come un magistero, per me ancora
bambino. La cucina si affacciava sulla strada, e chi entrava era stupito dal
grande tavolo in noce massiccio che si trovava di fronte.
Durante il giorno sul tavolo vi erano una tovaglia su cui
stavano un pane (una grìssia), un fiasco di vino rosso (barbera o dolcetto) e
un orciuolo con l’olio. Il tutto ricoperto da un tovagliolo ricamato a punto
croce con la scritta: “Il pane, il vino e l’olio ci trasmettano lezione e
sapienza”.
E così la tavola diventava un simbolo; anzi, oserei dire, un
sacramento. Non era possibile entrare in casa senza vedere la maestà di quel
pane, di quel vino e di quell’olio. Quell’icona racchiudeva un magistero
grande: rispetto per quel pane che era vita (“senza pane c’è la morte”, si
diceva); pane che aveva richiesto lavoro e sudore; pane raro nel dopoguerra, in
particolare quello bianco; pane vegliato e atteso con trepidazione, soprattutto
nei mesi di maggio e di giugno, quando sui campi di grano incombono i temporali
con la “tempesta”, la grandine. C’era una venerazione per il pane da parte di
tutti: mai sprecato, mai posato male sulla tavola, sempre condiviso.
Ma la tavola di casa mia aveva soprattutto una
caratteristica: era spesso un luogo di accoglienza dello sconosciuto. Abitavo
al centro del paese, davanti alla chiesa e all’unica piazza, luogo di arrivo di
zingari, mendicanti, venditori ambulanti.
Proprio loro erano gli sconosciuti invitati a tavola, perché
mio padre ripeteva: «È vergognoso dare da mangiare sulla porta!». Così fin da
piccolo ho mangiato accanto a sconosciuti, spesso poco decenti, che a volte mi
facevano paura, altre volte mi allietavano, come i “ramai” montenegrini.
Ascoltavo le poche parole scambiate e imparavo ad accettare
uno sconosciuto accanto a me. Tutti potevano essere ammessi a quella tavola,
povera ma sempre capace di offrire pane, vino e verdure.
Sì, la tavola è il luogo di accoglienza dello sconosciuto,
dello straniero, come ho sperimentato fin da piccolo. E siccome quelli erano
tempi di fame e di penuria, ho capito ben presto che la festa nasce dall’azione
del condividere più che da ciò che viene condiviso. Basta poco, ma se è
condiviso, quel poco moltiplica lo stupore dell’incontro, la gioia. Di più,
nella sua essenzialità di condivisione di pane, vino e poco altro, l’incontro a
tavola infiamma i cuori e si apre all’ascolto dell’altro. E così quanti
mangiano lo stesso pane imparano a essere “compagni” ( cum-panis), a vivere
insieme, mai senza l’altro.
Scritto da Enzo Bianchi e pubblicato sul sito: La Repubblica;
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