Ormai c'è una "questione settentrionale"
Questi quattro mesi
di pandemia hanno strappato molti veli e segnalato molte vulnerabilità di
sistema, prima di oggi rimosse o coscientemente occultate. Tra queste vi è la
“questione settentrionale” ed è tempo che si porti alla luce e ci si metta
mano, con ogni mezzo necessario.
In Italia da decenni affrontiamo la questione con una
visione rovesciata, consentendo che la “questione meridionale” continui ad
essere vissuta come l’unico aspetto dello sviluppo disuguale del nostro paese.
Come se l’effetto possa consentire alla causa di continuare ad agire
indisturbata nel tempo.
Ma dopo questi mesi in cui la localizzazione, la diffusione
e la risposta alla pandemia di Covid 19 hanno rivelato geografie e
comportamenti molto precisi, è tempo di rovesciare una visione falsata e
obsoleta: il nostro paese ha una questione settentrionale alla
quale mettere mano.
In questi mesi sono infatti emerse domande cui occorre
cominciare a dare risposte. Perché i due focolai di coronavirus, quello in
Veneto e quello in Lombardia si sono diffusi così velocemente? “C’è stata
una non conoscenza dei sanitari che non sono stati in grado di riconoscere
immediatamente i sintomi del virus”, ha commentato il commissario
all’emergenza Angelo Borrelli. Vero o falso che sia, non risponde alla domanda.
Perché il Coronavirus si è diffuso più al Nord che al
Centro-Sud?
I risultati dello studio di un gruppo di docenti e ricercatori
dell’università di Catania non forniscono una risposta univoca, ma analizzano
una serie di possibili fattori, tra cui “l’urbanizzazione”, fenomeno che
“influenza sempre più le caratteristiche epidemiologiche delle malattie
infettive”. “La stretta vicinanza delle persone nella loro mobilità a
corto raggio e l’atteggiamento di utilizzare i mezzi pubblici affollati è
amplificato in città compatte e dense”, scrivono i ricercatori.
E poi c’è l’inquinamento atmosferico che potrebbe aver giocato
contro le regioni settentrionali, e in particolare contro la Pianura Padana. “È
noto – si legge nello studio – che le persone con patologie
polmonari e cardiache croniche causate o peggiorate dall’esposizione a lungo
termine all’inquinamento atmosferico sono meno in grado di combattere le
infezioni polmonari e hanno maggiori probabilità di morire”.
Nelle tre regioni di quella che abbiamo definito “la Baviera
del Sud” (Lombardia, Nordest, Emilia Romagna) si concentra non solo quasi il
50% del Pil dell’intero paese, ma anche l’80% del valore aggiunto e
dell’export.
Chiunque abbia circolato sulla tangenziale di Milano a
Brescia o nella bergamasca, non può che rimanere attonito dall’enorme densità
di fabbriche e capannoni. Oppure chi attraversa il Veneto da ovest a est non si
accorge neanche di passare da un comune all’altro perché gli insediamenti
abitativi e industriali sono praticamente un continuum senza
interruzioni.
Tutto questo è stato vissuto solo come Pil, crescita,
impresa, business producendo un stile di vita, una ideologia e
un approccio conseguente, individualista e, se volete, nichilista.
A interpretare questo blocco storico è
stata ad un certo punto soprattutto la Lega, con i suoi amministratori che
governano il Nord, dal Piemonte al Friuli – tranne l’Emilia Romagna – con i
suoi riti popolari nelle sagre di paese, o a Pontida, e le sue strettissime
connessioni con il mondo delle imprese, in cui i peggiori “spiriti animali” del
capitalismo si sono rivelati palesemente in piena emergenza pandemica.
Questo blocco di interessi materiali, e di ideologia
conseguente, presenta anche le sue differenziazioni interne.
Zaia che presta ascolto ai giusti consigli dello scienziato
Crisanti e riduce, per ora, l’impatto della pandemia in Veneto ma poi spinge
per riaperture senza limiti.
L’Emilia Romagna governata dal Pd e da Bonaccini, ma che
sostanzialmente condivide la prospettiva dell’autonomia differenziata delle
regioni e l’identico modello economico/ambientale.
Al centro della questione settentrionale agisce poi un
magnete: la Lombardia e al centro di essa Milano. Due entità governate
diversamente da Lega e Pd, ma sostanzialmente convergenti sul “prima il
business” come agente materiale ed ideologico decisivo.
A farne le spese è stata anche e soprattutto la sanità. E
qui il velo dell’”eccellenza lombarda” è stato strappato in via definitiva. I
dati sui morti e i contagi sono lì a dimostrarlo. Pochi centri
d’avanguardia non possaono contrastare una pandemia o qualsiasi altra
patologia di massa.
“Quando si assiste a un fenomeno come quelli
dell’ospedale di Alzano Lombardo, non ci si può esimere da una riflessione su
chi ha gestito la sanità in Lombardia negli ultimi 20 anni” – afferma un
amareggiatissimo Gino Strada – “Questi anziani sono stati lasciati
morire nelle case di riposo senza nessuna umanità, senza nessuna pietà. Tutto
questo è moralmente, prima che giuridicamente, un crimine. La
Lombardia ha fatto con gli ospedali ciò che ha persino la camorra avuto
difficoltà a fare in questo modo così esteso e puntuale”.
Ma anche sul presente, sull’impressionante
pressing fatto per limitare le chiusure di imprese prima e
accelerare le riaperture poi, comincia a pesare come un macigno l’ipotesi che i
dati forniti in Lombardia non siano stati e non siano ancora
adesso attendibili.
“La nostra grossa preoccupazione è che in questo momento
la situazione lombarda sia quella che uscirà per ultima da questa tragedia,
perché se si chiude troppo tardi e si vuole riaprire troppo presto, e si
combinano anche dei magheggi sui numeri, allora è ovvio che la volontà politica
non è quella di dominare l’epidemia ma è quella di ripartire al più presto
con tutte le attività, e questo non lascia tranquilli“,
afferma il matematico Nino Cartabellotta, presidente della
fondazione Gimbe che da tempo, da prima della pandemia, sta documentando i
danni dello smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale.
Ma sulla Lombardia, oltre i costi umani della pandemia, sta
agendo anche un altro “cigno nero”, prevedibile ma non previsto.
Se la Lombardia è il magnete intorno a cui ruota in modo del
tutto asimmetrico il resto del paese, essa è a sua volta subalterna al magnete
della Germania. Nella ossessione competitiva, anche le ricche regioni del Nord,
e tra esse la “ricca” Lombardia, hanno una funzione subordinata nelle filiere
produttive e tecnologiche.
E qui il cigno nero della recessione in Germania, iniziata
assai prima del coronavirus, stava già producendo effetti. A renderne conto è
la stessa Assolombarda, filiale di Confindustria diventata una sorta di
“nazisti dell’Illinois” di casa nostra.
Nel suo ultimo rapporto di maggio, proprio Assolombarda certifica che la Lombardianell’ultimo decennio non è riuscita a raggiungere una crescita dell’1% (è ferma
a +0,7%). Nello stesso periodo il Land tedesco della Baviera è
cresciuto del 23%; quello del Baden-Württemberg del 17%. Molto meglio
della Lombardia ha fatto anche la Catalogna spagnola, con un tasso di
crescita dell’8%. Milano, Lodi, Monza e Brianza, rivelano quindi “una
distanza abissale rispetto alle colleghe europee negli ultimi 10 anni”,
scrive Assolombarda.
“Più confortanti, invece, i numeri relativi al
quinquennio 2014/2019, che hanno visto la Lombardia crescere del 7,4%, una
soglia però sempre lontana dai diretti competitor: +18% in Catalunya,
+12,5% nel Baden-Württemberg e +12,3% nel Baviera. Guardando,
invece, alle altre Regioni più industrializzate del Nord Italia, nel 2019 la
Lombardia si piazza di poco al primo posto davanti a Veneto ed Emilia Romagna
(0,4%), poco più staccato il Piemonte (0,2%)”.
Si pone dunque un problema strategico non solo per la
Lombardia e il Nord, ma per l’intero paese. Continuare a stressare ambiente,
lavoratori e lavoratrici, relazioni sociali – nelle aree metropolitane come nei
piccoli centri – all’insegna di una competitività ossessiva e dai
risultati incerti, ha creato le condizioni idonee per l’esplosione di una
pandemia, questa sì imprevista e imprevedibile, ma dentro un contesto di
collasso di sistema ampiamente prevedibile.
La primazìa del “Partito Trasversale del Pil” rispetto a
tutte le altre esigenze sociali, non è un vulnus solo per
questa regione, ma di sicuro è in questo teatro che si gioca la partita
decisiva.
Le reazioni furiose all’idea che il “modello Lombardia”
possa e debba essere rimesso radicalmente in discussione con scelte radicali –
a cominciare dal ripristino della centralità della sanità pubblica – sono il
problema che questo paese deve affrontare e rimuovere, con ogni mezzo
necessario, incluso il commissariamento della giunta Lombarda. Serve un segnale
forte di controtendenza.
I guasti del regionalismo spinto prima e le velleità
sull’autonomia regionale differenziata poi, oggi sono sotto gli occhi di tutti.
E’ l’occasione da cogliere per mandare un segnale. Il vero
limite è l’inconsistenza e l’indecenza della classe politica di governo. Ne
avrebbero tutti gli strumenti e le possibilità, ma buona parte di chi sostiene
l’attuale esecutivo continua ad essere parte del problema e non
della soluzione.
Siamo ancora in quel chiaroscuro tra il vecchio che
muore e il nuovo che non può nascere, in cui si producono fenomeni
morbosi.
Per questo l’unica ventata di rinnovamento può provenire da un conflitto di classe esteso e radicale che, oltre le sacrosante rivendicazioni concreti, cominci a maneggiare anche una visione generale dello sviluppo di questo paese, a cominciare dall’affrontare anche la “questione settentrionale”.
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