Non solo Ucraina e Gaza: le guerre dimenticate e gli interessi delle potenze più grandi. Massacri e profughi: dal Sudan alla Birmania
Articolo scritto dal sito www.ilfattoquotidiano.it;
Il 2024 è stato un anno nero per le guerre: l’incremento stimato
delle vittime è stato del 37% a livello mondiale e addirittura
del 315% in Medio Oriente e Nord Africa, secondo il rapporto annuale sui
conflitti pubblicato dall’International Institute for Strategic Studies. Il
rapporto stima che almeno 200mila persone sono state uccise in un
conflitto durante l’ultimo anno. Il 2024 è stato segnato dal proseguimento
della guerra fra Russia e Ucraina, dalle devastazione della Striscia
di Gaza, all’invasione del Libano e dall’escalation delle tensioni
fra Israele e Iran, fino alla caduta del regime siriano di Assad.
Tuttavia, oltre a questi conflitti che hanno un’alta attenzione dei media di
tutto il mondo, altri continuano a incendiare diverse parti del globo anche se
lontani dall’occhio dei mezzi di comunicazione. Secondo l’istituto indipendente
Sipri nel 2024 le guerre attive sono state 54.
Si tratta di scontri armati che in alcuni casi durano anche
da decenni e che, pur causando sofferenze enormi, non trovano spazio
nelle coperture mediatiche. In Sudan la crisi rischia di
diventare una nuova pulizia etnica, mentre altre regioni del mondo, come
il Medio Oriente e l’Africa subsahariana, hanno visto un aumento
senza precedenti della violenza dovuto a fattori interni e esterni. Questo
articolo vuole portare alla luce proprio queste guerre dimenticate,
mettendo in evidenza alcuni dei conflitti più caldi come in Sudan, Burkina Faso, Mali e Niger, Repubblica
Democratica del Congo, Somalia, Myanmar, Haiti, le regioni
curde tra Siria e Turchia. Guerre che rischiano di
essere trascurate, ma che continuano a decimare migliaia di vittime e a
causare massicci flussi migratori.
Sudan – Il Sudan porta con sé decenni di
instabilità, a partire dalla guerra civile del 1956 fino al genocidio del Darfur nel
2003. Tuttavia, è nel 2023 che il Paese ha vissuto la fase più cruenta della
sua storia, con oltre 61mila morti. La guerra civile, scatenatasi tra le Forze
Armate Sudanesi e le Forze di Supporto Rapido a seguito del golpe del 2019 che
ha rovesciato il regime di Omar al-Bashir, è stata alimentata sia da
interessi nazionale sia da fattori esterni, legati agli interessi economici
e geopolitici della regione. Da un lato, le Rsf sono supportate
dagli Emirati Arabi Uniti, interessati agli enormi giacimenti d’oro
sudanesi. Dall’altro, le Saf godono del sostegno dell’Egitto, che cerca di
mantenere la propria influenza sul Sudan per garantirsi il controllo sul Nilo,
utile a contrastare la Grande Diga del Rinascimento Etiopico, che
minaccia le risorse idriche egiziane. L’Onu e numerose ong hanno sollevato
gravi preoccupazioni riguardo alla catastrofe umanitaria in corso,
avvertendo del rischio di 2,5 milioni di morti a causa della carestia generata
dal conflitto, che nelle ultime settimane ha visto un’intensificazione
degli attacchi nelle aree residenziali, aggravando ulteriormente la situazione.
Burkina Faso, Mali e Niger – Il conflitto è
una combinazione di violenze jihadiste e instabilità politica. I gruppi
jihadisti come Jnim e l’Isis hanno intensificato gli attacchi,
causando oltre 20mila morti in Mali, 10mila in Burkina Faso e 4mila in Niger,
con milioni di sfollati. La crescente frequenza dei colpi di Stato —
nel 2020 in Mali, nel 2022 in Burkina Faso e nel 2023 in Niger — ha aggravato
la crisi. L’Ecowas – la Comunità economica dell’Africa occidentale – ha
risposto sospendendo i governi militari e imponendo dure sanzioni, ma le
giunte hanno minacciato di uscire dall’organizzazione e, al contrario, hanno
stretto un’alleanza difensiva tra i tre Paesi. Questa mossa ha
accentuato il conflitto con l’Occidente, in particolare con la Francia,
che ha deciso di ritirare le sue truppe, lasciando il campo libero
alle ambizioni russe. La crescente militarizzazione della regione, combinata
con una crisi umanitaria sempre più grave, rischia di far radicalizzare la
regione e di espandere il conflitto ben oltre i tre paesi.
Somalia – Il Paese, segnato da decenni di
instabilità e dalle devastanti conseguenze della guerra civile del 1991,
con oltre 500mila morti, vive ancora oggi una grave crisi. Oggi è
stretto nella morsa di una violenza che non accenna a fermarsi, alimentata
principalmente dall’insurrezione di Al-Shabaab, il gruppo jihadista, che
da oltre 17 anni combatte contro il fragile governo centrale. Nonostante
il supporto delle truppe internazionali dell’Unione Africana e degli Stati
Uniti, le forze somale si sono scontrate con la difficoltà di contenere
l’avanzata del gruppo, che continua a mantenere il controllo ampie zone
rurali. A complicare ulteriormente la situazione c’è il fatto che la Somalia
è divisa da conflitti interni, come quello tra il Somaliland, che
rivendica l’indipendenza, e lo stato Khatumo, che chiede il ritorno sotto
il controllo di Mogadiscio. Il 2025 rischia di essere un anno ancora più
difficile per il governo somalo: il previsto ritiro delle truppe
internazionali rischia di aprire un vuoto di potere che potrebbe
far degenerare ulteriormente il conflitto.
Repubblica Democratica del Congo – Violenze
etniche, ingerenza delle potenze straniere (non si contano: Usa, Francia, Belgio,
di recente Russia e Cina), lotta per i ricchissimi
giacimenti di materie prime (cobalto, rame e coltan solo per citarne
alcuni) e per il controllo del territorio di confine. Il conflitto nel Nord
Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo continua a uccidere
miliziani e civili, costringendo la popolazione a fuggire dalle
violenze di gruppi terroristici e bande armate, mentre l’area ha attirato
l’attenzione anche di gruppi paramilitari stranieri. Secondo le stime, oltre
6 milioni di persone sono morte a causa della violenze nel Paese negli
ultimi 30 anni, mentre più di 7 milioni di congolesi sono attualmente
sfollati interni, rendendo la Repubblica Democratica del Congo uno dei paesi
con il maggior numero di rifugiati al mondo.
Repubblica Centrafricana – Il conflitto nel
Paese, incentrato su un tutti contro tutti, continua a seminare morte
e distruzione, con i gruppi ribelli e le forze governative che si
affrontano in una guerra senza fine e con centinaia di vittime e
sfollati. A partire dalla caduta del presidente François Bozizé nel
2013, oltre il 70% del territorio è controllato dai gruppi armati, senza
una causa chiara per gli scontri che persistono. L’instabilità è
alimentata da una povertà estrema, che ha portato a usare la guerra
civile come un business redditizio tramite il traffico di armi condotto
dai gruppi armati e parte dell’esercito corrotto. La situazione di crisi ha
attirato l’interesse di diversi Paesi, come la Russia che ha incrementato
il suo coinvolgimento inviando miliziani mascherati da istruttori,
sfruttando il Paese per risorse naturali e destabilizzando ulteriormente
la regione macchiandosi di abusi, violazioni dei diritti umani, torture ed
esecuzioni sommarie. Anche la Cina ha sfruttato l’instabilità
politica, vendendo armi al governo per aggirare l’embargo Onu e consolidando
così la sua influenza economica e militare.
Myanmar – Secondo diverse ong il Myanmar è
il Paese più violento del mondo. Dal colpo di stato del 2021, il Paese è
travolto da una guerra civile brutale che vede la giunta militare
combattere contro forze ribelli e gruppi etnici armati. Secondo molti testi si
tratta del conflitto civile più lungo ancora in atto. Sono oltre 3 milioni le
persone sfollate, almeno 20 milioni vivono in povertà estrema e decine di
migliaia hanno perso la vita. L’economia è sull’orlo del baratro. I profughi
cercano salvezza fuggendo verso i Paesi vicini: Cina e India soprattutto,
ma anche Thailandia e Bangladesh. I rifugiati di etnia Rohingya
(musulmani) puntano invece a Indonesia e Malesia. La comunità
internazionale ha imposto sanzioni economiche che però il regime militare prova
a evitare esportando soprattutto ai due giganti economici vicini, Cina e India.
Sempre la Cina – pur non appoggiando il regime militare birmano – è la
sospettata numero 1 di vendere al governo le armi. Nel dicembre 2022 il
consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato una risoluzione in cui si chiede di
liberare tutti i prigionieri politici e la fine della violenze. Risoluzione
proposta dal Regno Unito e approvata con nessun voto contrario, neanche quelli
di russi e cinesi. L’atto è rimasto lettera morta.
Haiti – Instabilità politica, dominio delle
gang armate, crisi umanitaria e fame estrema. Ad Haiti il caos continua a
travolgere la popolazione, intrappolata tra la violenza dei gruppi guidati da Jimmy
Chérizier, detto Barbecue, e un governo transitorio appena insediato. Le
bande armate, che controllano l’80% di Port-au-Prince, bloccano le
infrastrutture, svuotano le carceri e seminano il terrore, mentre le scuole
e gli ospedali restano chiusi. Secondo le stime, oltre 5mila persone sono
morte solo nel 2024, mentre più di 313mila haitiani sono sfollati all’interno
del Paese, costretti a vivere in rifugi sovraffollati dove il colera si
sta diffondendo rapidamente. Inoltre, metà della popolazione – 5,4 milioni
di persone – soffre di fame acuta, con due milioni a rischio immediato di
malnutrizione. Il vuoto di potere, iniziato con l’assassinio del presidente Jovenel
Moïse nel 2021 e l’assenza di elezioni dal 2016, ha portato la crisi del
Paese in un ciclo in cui non sembra ci sia una fine.
Kurdistan – Conflitto permanente e accuse
di terrorismo. I curdi, distribuiti tra cinque Paesi del Medio
Oriente, vivono da decenni in uno stato di perenne insicurezza. In Siria
le Forze Democratiche Siriane, sostenute dagli Stati Uniti, controllano oltre
il 30% del territorio, dove hanno fondato l’amministrazione autonoma del Rojava.
Tuttavia restano isolate e sotto costante minaccia turca. Ankara considera
le Sdf, guidate dalle Unità di Protezione Popolare, un’estensione del Pkk,
il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, gruppo armato che da decenni lotta
per l’indipendenza curda in Turchia e che il governo turco
classifica come organizzazione terroristica. Le forze armate turche conducono
regolarmente attacchi aerei nel nord dell’Iraq e della Siria contro
basi del Pkk e delle Ypg, con l’obiettivo dichiarato di eliminare le
“minacce” oltre confine. Da anni Erdogan insiste sulla necessità di
creare una zona cuscinetto lungo il confine meridionale. Oggi, con
l’intensificarsi dei bombardamenti e il dispiegamento di truppe vicino a città
simbolo come Kobani e la conquista di aree strategiche come Tal Rifaat e Manbij,
Ankara sembra pronta a una nuova pesante offensiva, favorita anche dalla
recente caduta del regime di Assad, che in passato limitava le incursioni
turche. Il perenne conflitto ha causato gravi conseguenze umanitarie, con
circa 200mla civili curdi sfollati e numerose vittime negli ultimi anni.
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