RIFLESSIONE DOMENICALE #16: "Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana"
<<In questa sedicesima domenica di riflessione, metto in risalto in questo articolo, un idea di reddito universale e di lavoro che condivido pienamente, perchè il mondo del lavoro robotizzato, avanza senza pietà e i posti lavoro saranno sempre di meno>>.
Buona riflessione e buona domenica!
Peppe Cotroneo
“Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”,
l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo
libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene:
riduce la criminalità, la mortalità infantile e
la dispersione scolastica e favorisce la crescita e
l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta
la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di
C02 e favorisce l’emancipazione femminile.
E’ la Utopia per realisti (uscito
in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico
olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli
onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l‘evasione e
l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum
economico di Davos. “Nessuno solleva l’argomento che i ricchi
non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino”, ha
scandito Bregman – che il mensile Fq Millennium aveva intervistato
nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in
Svizzera. “Mi sento come a una conferenza di pompieri in
cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto
il resto sono stronzate“.
Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è
utile e necessaria in un mondo in cui “tanti pensatori e politici di sinistra
tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie
fila per la paura di perdere voti” mentre “i neoliberisti sono
imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le
statistiche”. Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che
Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia “un
investimento che ripaga con gli interessi” e come distribuire denaro senza
un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per
condurla. Soldi gratis, dunque, “non come favore ma come diritto”: quella che
Bregman definisce “la via capitalista al comunismo”.
Secondo l’economista Charles Kenny, dello
statunitense Center for Global Development, “il principale motivo per cui la
gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una
grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il
problema”. E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi
senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita
della popolazione nei Paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di
gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti
nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per
esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada,
riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso
di droga e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza
agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che
commettono per sopravvivere.
Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene,
pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come
avvenuto a fine anni 60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon
B. Johnson e in Canada negli anni 70 con il Mincome.
“Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che
sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4500
dollari all’anno”, nota Bregman. “Alla fine, i rientri di questo investimento
per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3000
dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di
maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di
introiti fiscalistatali aggiuntivi”. Questo perché la povertà, ponendo
continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno
definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare
negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test.
Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard
Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite
per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua
opposizione fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi
del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento
inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei
redditi di “tutti gli uomini poveri e industriosi e loro
famiglie”. Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine
per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, “l’ora è arrivata”
per garantire a tutti “una rendita mensile sufficiente per campare anche se non
muovi un dito”, senza “nessun ispettore che ti controlla da dietro
per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero
meritati”.
Gli altri due pilastri della “utopia per realisti”
riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che
l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza
inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata,
nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non
va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi.
Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla“, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri che concepiscono “complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione”). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento.
Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla“, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri che concepiscono “complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione”). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento.
Idee irrealizzabili?
“Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere
che collidevano con lo status quo”, è la risposta di Bregman. “La fine
dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza
sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma
alla fine accettate come cose di comune buon senso”.
(Scritto e pubblicato sul sito: ilfattoquotidiano.it)
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